Letteratura danese 1 in collaborazione con L'Elogio del Rospo: Herman Bang
- 18 Febbraio 2017
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Oggi è un giorno meraviglioso perché inizia un bellissimo progetto. "Meraviglioso", "bellissimo", o mamma, che esplosione di entusiasmo! Eh sì, è proprio così! Si tratta di una collaborazione tra A Spasso con Elena e L'Elogio del Rospo, dietro al quale si nasconde la mia cara amica Alice. Alice ha due occhioni grandi e blu, un modo di fare gentile e premuroso, e un insaziabile interesse per l'arte e la letteratura. Non solo è appassionata di libri, ma possiede anche una vasta conoscenza di questi. Alice ha studiato Filosofia presso l'Università Ca' Foscari di Venezia e da qualche anno lavora nel mondo del libro. Lo scrisse Confucio e lo ripeto anche io: "Scegli il lavoro che ami e non lavorerai mai, neanche per un giorno in tutta la tua vita". Un aspetto che ci accomuna è proprio la passione nei confronti del nostro lavoro. Abbiamo deciso di trasmetterla anche a voi attraverso una collaborazione che prevede la pubblicazione bimestrale di un articolo sulla letteratura danese. Alice è un'esperta e anche una brava critica, per questo motivo ho deciso di proporre a lei l'avvio di questa rubrica tanto interessante. Nei prossimi mesi vi terremo compagnia dandovi la possibilità d'immergervi nella cultura danese attraverso alcuni libri. La vostra esperienza culminerà poi, se lo vorrete, nella lettura degli stessi, e perché no, in un viaggio in Danimarca!
Ora passo la parola a
ALICE DI L'Elogio del Rospo:
Il mio nome è Alice, mi piace molto leggere, adoro Jeffrey Eugenides (anche i suoi libri), ho una particolare inclinazione ad acquistare compulsivamente cappelli che, poi, puntualmente non indosso e coltivo una passione insaziabile per la frittura mista e i croissants alla cioccolata. La scrittura non è sempre stato il mio principale passatempo ma da qualche anno a questa parte, seppur senza particolare regolarità, ho cominciato a intessere brevi riflessioni e storie. Pertanto, quando Elena mi ha parlato della possibilità di collaborare con lei nel dare vita a una rubrica sulla Letteratura Danese, ho subito pensato si trattasse di una grande opportunità, non solo per mettermi in gioco e scrivere più regolarmente, ma anche per conoscere meglio una cultura a me ancora aliena. Sono trascorsi molti mesi prima che io prendessi la decisione di acconsentire alla sua proposta e posso ora dire, nonostante la persistente presenza di alcuni timori e remore, di trovarmi nel posto giusto al momento giusto. Quale momento migliore, se non questo, per aprire all’alterità? Proprio all’indomani dell’insorgere dei nuovi nazionalismi, ritornati in auge nell’improprio tentativo di arginare il fenomeno dell’immigrazione: come se un processo sociale, mosso dalle guerre e dalla povertà che queste hanno generato, possa essere “sciolto” con un semplicissimo e banale mezzuccio di pseudopolitica.
Ma veniamo al libro che ho intenzione di presentare oggi, seppur sommariamente e con tutti i limiti del caso.
Il romanzo che apre questo sperimentale viaggio nella Letteratura Danese, è La casa grigia di Herman Bang, nella traduzione di Hanne Jansen e Claudio Torchia, pubblicato dalla casa editrice milanese Iperborea. Le vicende narrate raccontano di una nobile famiglia Danese finita in disgrazia: la lenta deriva di quella che potremmo definire un’epopea familiare è scandita dal malfermo incedere di una generazione ormai adulta che, immemore del passato glorioso di una casata che ha fatto la storia della Danimarca (gli Hvide) e sorda alle sferzate di un presente corrotto mobilitato dal solo denaro, non assume fino in fondo la responsabilità che le competerebbe. Ecco che, allora, Ole Hvide - ultimo e, dunque, unico rappresentante di un modello civile e nobiliare ormai decaduto - osserva, immobile e impotente, l’inevitabile fine non solo di una famiglia ma anche di un vero e proprio terreno civile di significato e valori. Egli rammenta ancora i tempi in cui l’identità e il ruolo sociali di un individuo venivano a costruirsi sulle gesta e le decisioni da questi compiute.
Ole ricorda, insomma, quanto allora il denaro costituisse un bene di contorno e mai la regola del vivere in comunione con gli altri, ed è sotto il suo ausilio che prendiamo parte ai salotti dei moderni ricchi, animati solo da chiacchiere insulse e da un’attenzione spasmodica al vestire bene, al parlare con garbo, all’essere sempre in linea con il potere politico perché così non ci sono rischi, perché così si evitano problemi, perché, in fondo, va bene non responsabilizzarsi.
Quella passione, però, che riporta Ole Hvide agli albori della sua vita, a volte, sembra anche chiuderlo con la stessa forza in una gabbia tanto soffocante da impedirgli di comunicare, di aprirsi agli altri. E’ proprio sul terreno di tale incomunicabilità che si colloca e trova edificazione quel senso di decadimento assoluto e inevitabile che percorre l’intero romanzo.
Herman Bang scrive con maestria, riuscendo a riprodurre l’inevitabile declino di una società che non ha memoria, che non innesta un dialogo tra le generazioni e che per questo è incapace di guardare al presente per pensare a un futuro di riforme e di crescita.
Ma è davvero tutto vano, è davvero inevitabile che “la terra un giorno si raffredderà, [e con questa] anche l’uomo”?
Mi piacerebbe conoscere la vostra posizione su questo argomento e, ovviamente, sapere anche che cosa ne pensate del libro di Bang che, se non si fosse ancora capito, vi consiglio vivamente di leggere!